martedì 30 luglio 2013

SCHEDA sulla BORGHESIA ITALIANA nella SECONDA METÁ del ‘700 e nel PRIMO VENTENNIO DELL’ ‘800


Alla fine del ‘700 non esistono in Italia

a ) una borghesia sufficientemente diffusa che funga da spina dorsale dello Stato né da centro della società civile, che sia omogenea dal punto di vista ideologico o dotata di un programma di trasformazione della società, cioè che, in poche parole, sia da considerare quale borghesia nazionale, né di fatto né in nuce;



b ) una borghesia di tipo manifatturiero abbastanza ampia. L’ unica manifattura abbastanza forte, perché trovava sbocchi nell’ esportazione, era l’ industria serica. La regione leader era la Lombardia. Attorno a questa industria ruotava tutto un mondo di fornitori agricoli, di commercianti, di mediatori, di artigiani. Il perno era però costituito dai capitalisti, in qualche caso di origine nobile. Questa industria era collocata nelle zone agricole, appresso alla fonte: le coltivazioni dei gelsi. Essa occupava quasi esclusivamente manodopera femminile ed infantile. Gli uomini adulti continuavano ad essere contadini a tempo pieno. Non c’ era dunque la minima traccia di concentrazioni operaie.
L´agricoltura avanzata e a conduzione capitalistica, dotata anche delle tecniche migliori, era diffusa quasi solo nella pianura padana. Era allocata nelle grandi affittanze, gestite per lo più a mezzadria. La produzione che fruttava di più era la coltivazione del riso. Grazie ad essa si ebbe una forte spinta alle irrigazioni e alle bonifiche. La situazione nel resto d’ Italia, soprattutto nel sud, era ben peggiore. Va però detto che, anche per l’ angustia del mercato, per la pochezza dei prodotti che vi trovavano collocazione, la circolazione monetaria era nell’ insieme ancora piuttosto ridotta. Insomma, nelle campagne e nei piccoli centri la situazione era questa: pochi consumatori sul mercato ed economia di mercato asfittica.

Si può dunque affermare che, essendo quasi inesistente la borghesia industriale, rara quella agraria, e non molto numeroso il ceto mercantile:
c ) i ranghi più numerosi della borghesia erano costituiti dai professionisti delle arti liberali: avvocati, medici, insegnanti, farmacisti, funzionari pubblici di un certo rango, notai, giudici ecc. Ovviamente risiedevano quasi soprattutto nelle città.

La borghesia produttiva trovò un humus favorevole per stabilizzarsi e crescere nell’ opera dell’ assolutismo illuminato. Va ribadito che gli iniziatori delle riforme furono esclusivamente i principi regnanti stranieri ( Asburgo a Milano e Firenze; Borboni nel Regno delle Due Sicilie ) che volevano rendere più efficiente lo stato e disporre di maggiori risorse.
Questi si fecero promotori ed ebbero cura dell’ ‘economia nazionale’ soprattutto a partire da quel che esisteva. Si concentrarono cioè sull’ agricoltura, sulla sua modernizzazione. Quel che di nuovo e dinamico trovavano in agricoltura era opera di grandi fittavoli, di intraprendenti amministratori di grandi patrimoni, di vecchi e nuovi proprietari innovatori e di veri agrari capitalisti.
I governi intrapresero una nuova rilevazione e classificazione catastale, lo scioglimento del regime fedecommissario e la liberalizzazione del commercio dei generi agricoli, la riduzione dei dazi e dei pedaggi. Il senso del riformismo asburgico ( Lombardo-Veneto e Toscana ) fu di eliminare antichi lacci feudali e indebolire il particolarismo nobiliare. La cosa fu meno sentita e praticata nel Regno delle due Sicilie, dove fu invece soprattutto attaccato il ruolo della Chiesa e delle proprietà ecclesiastiche.


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L’ Illuminismo italiano è stato in gran parte un fenomeno aristocratico-nobiliare. Il perno era un’ aristocrazia ben informata degli sviluppi culturali in Europa, che guardava con favore alle riforme dell’ assolutismo illuminato, che lo auspicava nelle realtà statuali italiane, anche se non metteva ancora la questione nazionale all’ ordine del giorno. L’ aristocrazia progressista trovò poi come interlocutori nell’ opera di rinnovamento i ceti borghesi di cui parlavamo sopra. Sia la borghesia del denaro che quella del sapere speravano nelle liberalizzazioni economiche e nella modernizzazione delle infrastrutture.



I “progressisti“ (compresi gli aristocratici) furono presi alla sprovvista dai fatti di Francia, dalla Rivoluzione prima, e poi dalla fase napoleonica. Ci fu entusiasmo, una volgia di fare. Si ebbe un effetto imitativo che si concretizzò soprattutto in un’ improvvisa e improvvisata radicalizzazione in senso giacobino ( seppure senza il fenomeno del sanculotti ). I “progressisti“ vennero subito chiamati i “giacobini”, con un uso del termine assai impreciso. Nelle loro fila il ceto più rappresentato era quello cittadino-borghese delle professioni e dei commerci. I “giacobini” si dividevano poi in moderati (liberisti e liberali) e in radicali (democratici, egualitari, propugnatori della democrazia diretta).

Il programma politico ed economico dei rivoluzionari fu questo: libertà di stampa, espressione e riunione, liberalizzazione del commercio, eliminazione dei privilegi feudali, libera proprietà agricola, esproprio della proprietà ecclesiastica. Questo spaventò non solo la nobiltà terriera, ma anche i contadini, che temettero che le terre demaniali venissero soppresse e privatizzate. Ma a soffiare sul fuoco si aggiunse presto la propaganda antirivoluzionaria sanfedista.
Le liberalizzazioni furono subito identificate con la presunta volontà “giacobina“ di eliminare gli usi comuni e gli usi civici. Per di più il clero li tacciava di ateismo. Furono dunque i contadini subito pronti a opporsi al nuovo corso. I rivoluzionari furono grandemente sorpresi, visto che contavano sull’appoggio delle masse contadine, come era per lo più accaduto in Francia.
Il ruolo della Chiesa Cattolica fu determinante nella reazione e restaurazione. Fu la Chiesa a garantire la presa sul popolo e a sostenere e assorbire meglio la forza d’ urto rivoluzionario-giacobina e ad assicurare il consenso all’ Ancien Règime. Così essa, da protetta ne divenne la protettrice. Era l’ unica realtà che conosceva a fondo la realtà e la psicologia delle masse contadine, che ovviamente avevano coordinate mentali e morali plasmate dall’ etica cattolica stessa. Fu allora che si formò l’ alleanza di trono e altare.

( Bibliografia di riferimento: G. GALASSO, Potere e istituzioni in Italia, Dalla caduta dell’ Impero Romano a oggi, Einaudi 1974, capitolo VIII, pp.141-159 )

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La nuova borghesia

Tranne che a Milano la B. italiana è poca cosa e non si presenta come una classe conscia del proprio ruolo né dotata di un programma riformatore. Mancano sia una vera integrazione tra borghesia del denaro e borghesia del sapere, che obiettivi comuni e punti di riferimento istituzionali su cui far convergere istanze riformatrici.

La particolarità di Milano si spiega così: L’ aristocrazia illuministica aveva lasciato il segno ed era diventata un punto di riferimento anche per la borghesia professionale, burocratica e commerciale. Gli aristocratici illuminati avevano inoltre trovato degli interessati interlocutori nella monarchia asburgica. Avevano avanzato progetti di riforma. Di converso, i rappresentanti imperiali cercavano la consulenza e l’ appoggio dei riformatori. Restava però un ostacolo notevole: i governanti erano stranieri. Mancava la spinta che viene dall’ agire in proprio, si guardava con diffidenza alla tassazione, si sospettava un carico fiscale superiore alle altre regioni dell’ Impero Asburgico. La Lombardia era la regione più ricca ed era di grande rilevanza per il bilancio statale nel suo insieme. La diffidenza dei milanesi aumentò poi sotto il figlio e successore di Maria Teresa, Giuseppe II, un imperatore che agiva in modo più rozzo, che faceva sentire ai lombardi il fiato sul collo. Non stupisce dunque che buona parte dell’ aristocrazia e tutta la borghesia guardarono subito con grande interesse alla Rivoluzione Francese. Proprio questi ceti fornirono l’ ossatura, la classe dirigente alla Repubblica Cisalpina.

Nel resto d’ Italia non c’ erano queste condizioni. Sia nel resto del Nord che al Centro la borghesia non si sentiva affatto classe dirigente o aspirante tale. Anche i legami tra borghesia agraria e cittadina erano troppo deboli. Al Sud poi non c’ era altro che borghesia del sapere, allocata nelle città. Ma il suo sistema di coordinate non era affatto autonomo, essendo subalterno a quello della nobiltà. I borghesi cercavano di imitarne lo stile di vita ed erano succubi dei valori aristocratici. I ceti borghesi di Napoli e di Roma si trovarono poi, quasi d’ improvviso, a seguire la parte illuminata della nobiltà che salutò con entusiasmo la Rivoluzione Francese e diede vita alle sfortunate esperienze repubblicane di fine secolo.

Ciononostante si era ormai aperta una nuova fase storica, per la prima volta favorevole allo sviluppo della borghesia in Italia. Stavano infatti per irrompere le armate napoleoniche. Laddove le forze rivoluzionari italiane, nonostante il notevole slancio, non riuscirono per esiguità di forze ed impreparazione, riuscirono le truppe francesi. In un modo o nell’ altro il Paese si trovò portato d’ improvviso all’ altezza dello sviluppo storico europeo. Questa fase rappresenta per l’ Italia una cesura epocale. In essa si pongono i germi del risveglio nazionale. Non solo. La borghesia cittadina, la borghesia del sapere, sarà la forza trainante dei moti e delle guerre d’ indipendenza, quella che fornirà la parte numericamente più consistente dei quadri del movimento risorgimentale.

Occupiamoci ora però di un’ altra questione, che diverrà più rilevante una volta raggiunta l’ unità nazionale. Che sviluppi ebbe la borghesia del denaro nel periodo napoleonico ? Si ingrossarono i ranghi della borghesia del denaro? Se sì, come ? Le risposte non sono difficili da trovare. Gli storici sono concordi e parlano della nascita e della rapida ascesa di una neo-borghesia, una borghesia improvvisata e d’ assalto. Per farcene un’ idea diamo la parola a Nello Quilici, che in uno studio del 1942, ancora oggi apprezzato, analizzò acutamente il fenomeno.


Da La borghesia italiana, origini, sviluppo e insufficienza, di Nello QUILICI, Roma 1942

  ( … ) veri profittatori della guerra e della rivoluzione, erano proprio i più audaci borghesi. Nell' Alta Italia si formavano nuove ricchezze attraverso le forniture dell'esercito, le spese generali delle campagne napoleoniche, le prestazioni lecite o illecite verso gli invasori: nell'Italia meridionale i borghesi correvano alle vendite di terreni soggetti da secoli agli ecclesiastici e alle manomorte e ora suddivisi con molto semplicismo tra coloro che li volevano comperare all'asta o a trattativa privata. Spesso si fanno avanti le genti stesse dei campi, i contadini sfruttati fino a pochi anni prima dai feudatari, e in mancanza di capitali ottengono le terre per mezzo di mutui ipotecari che il nuovo governo garantisce a un tasso relativamente mite.  Ma più spesso sono i borghesi delle città e soprattutto di Napoli, che realizzano il sogno di una piccola proprietà terriera di campagna ottenuta a condizioni vantaggiose.
( op. cit. pag. 120 )


 I mezzi, di cui si serve la pattuglia conquistatrice per infoltire le proprie schiere e impinguare sempre più i propri patrimoni durante l'epoca imperiale in Italia, si possono definire con sufficiente precisione: ( … ) l' appalto dei lavori pubblici, che sotto l'impero presero uno straordinario sviluppo e permisero a umili artigiani, capomastri, sterratori, manovali di far quattrini con vertiginosa rapidità non appena con un po' d'audacia usarono assumere di seconda, terza e quarta mano, la costruzione di un tronco stradale, di un ponte, chi un campo fortificato, di un palazzo; le forniture militari, a cui tutti si buttarono con ingordigia, mangiandosi vivi gli uni con gli altri, per poi divorare insieme i denari delle cassette imperiali; l' acquisto a vil prezzo delle proprietà delle Chiese, dei Conventi, nelle Opere Pie. Ma allo scopo servì più ancora la gestione dei livelli e delle decime, che Napoleone aveva incamerato depauperandone gli enti ecclesiastici ( … )   Al governo dell'imperatore premeva trarre dalle decine incamerate un profitto certo, quantunque inferiore al reale: perciò le mercanteggiò, le diede in gestione o le rivendette a uno stormo di speculatori privati, che garantirono un minimo all'erario imperiale e intascarono il resto.
( op. cit. pp. 136-137 )

 La nuova borghesia della campagna incaricata di dare l'ultimo crollo al feudalesimo già decrepito si appoggiò alla borghesia cittadina, formata in gran parte non già di commercianti ed industriali, ma di piccoli professionisti delle arti liberali: avvocati, medici, insegnanti. Gli uni e gli altri diventarono i sostenitori più efficaci del regime francese, e furono più tardi il nucleo centrale del liberalismo patriottico meridionale. Questa borghesia era di data troppo recente e lottava con ostacoli troppo grandi per essere capace di assumere la direzione effettiva del paese. Rimase quindi una minoranza, contro la quale si sferrò l'offensiva del popolino ignorante e superstizioso che odiava mortalmente i francesi per l'orrore naturale delle folle contro le novità. Più tardi, quando i Borboni ritornarono sul trono di Napoli, codesti borghesi ebbero contro anche la monarchia, alleata nuovamente ai baroni e alla Chiesa per odio contro la rivoluzione. D'altra parte molti fra i borghesi stessi degeneravano. Il Murat aveva prescritto nel 1808 che le utilizzazioni concesse e ripartite non si potessero vendere prima di 10 anni. Ma le alienazioni avvennero ugualmente e ne approfittarono i più ingordi. Non appena con l'industria pastorale e col risparmio i nuovi proprietari diventavano maggiorenti, accaparravano le terre dei vicini, ristabilivano il feudo e aspiravano a loro volta a titoli di nobiltà, che durante la Restaurazione furono concessi in gran copia. Codesti nuovi ricchi si alleavano così spesso ai ceti antiborghesi. Sono i famosi “galantuomini“ che ingrosseranno le file del sanfedismo borbonico nell'Ottocento. Resta però il fatto che l'elemento borghese del Mezzogiorno poté formarsi soltanto attraverso la riforma demaniale che la politica del Murat protesse e incoraggiò.
( op. cit. pp. 114–115 )


Beppe Vandai Heidelberg, 19 / 03 / 2013

BILIOGRAFIA per le SCHEDE 2 e 3 del 19 / 03 / 2013



ASCHERI Mario, Medioevo del potere. Le istituzioni laiche ed ecclesiastiche, Il Mulino 2005
[citato nella nuova edizione del 2009]

CIPOLLA Carlo Manlio, Storia economica dell’ Europa pre-industriale, Il Mulino, Bologna 1974; [citato nella nuova edizione del 2002]

CIPOLLA Carlo Manlio, Istruzione e sviluppo. Il declino dell’ analfabetismo nel mondo occidentale, Utet, Torino, 1971; [nuova edizione del 2002, Il Mulino, Bologna]

GALASSO Giuseppe, Potere e istituzioni in Italia. Dalla caduta dell’ Impero romano a oggi,
Einaudi, Torino 1974

JONES Philip, Economia e società nell’ Italai medievale: la leggenda della borghesia, in Storia d’ Italia, Annali I, Dal feudalesimo al capitalismo, Einaudi, Torino, 1978

MALANIMA Paolo, Italian Urban Population 1300-1861
http://www.paolomalanima.it/default_file/Italian%20Economy/Urban_Population.pdf

QUILICI Nello, La borghesia italiana. Origini, sviluppo e insufficienza, Ispi, Roma 1942

ROMANO Ruggiero, La storia economica. Dal secolo XIV al Settecento, in Storia d’ Italia, Volume II, Tomo II, Einaudi, Torino 1974

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